«Che alcuno non se parta della terra d’Arquata e suo contado con animo de non ritornare a detta terra»

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Il periodo della lotta al brigantaggio

Di seguito viene proposto in interessante estratto dall’opera “Memorie della mia vita militare” di Michele Carcani, patriota.
I fatti narrati si riferiscono ai primi mesi dell’anno 1861, subito prima della proclamazione del Regno d’Italia.
L’autore ricorda il suo arrivo nel Piceno, ed in particolare ad Arquata del Tronto, al seguito di un reggimento di volontari (si era arruolato nell’esercito piemontese durante la campagna 1859), inviati nella zona per dare ausilio alle truppe già impegnate nella lotta al brigantaggio, che in quei luoghi faceva riferimento alla figura del Piccioni e dei suoi seguaci.
Un frammento di storia italiana, intrecciato a vicende personali e alla descrizione delle località attraversate.

 

(…) L’intero bagaglio coi carri, comprese le carrette degli ufficiali, fu lasciato in Spoleto da dove per la via di Macerata e Loreto dovea recarsi in Ascoli; pochi muli cogli oggetti di cucina indispensabili per le compagnie seguirono il reggimento. Gli ufficiali non portarono seco che quella poca biancheria che poterono collocare nella loro borsa di viaggio: io che non avevo neppure lo zaino (che non portai mai) misi quello che potei nella tasca a pane. Alle 6 del mattino seguente, 6, ci mettemmo di nuovo in marcia. La strada da Spoleto a Norcia segue dapprima il corso del Nera, poi quello del Como suo affluente: e una buonissima strada carreggiabile di recente costruzione, incassata nei monti con altissimi tagli fatti nel vivo del masso e bellissimi ponti che attraversano di tratto in tratto il fiume, offrendo punti di vista variati e pittoreschi.

Erano circa due ore dopo mezzogiorno quando arrivammo a Norcia, dopo una marcia di 20 chilometri. La musica della città venne ad incontrarci a tre chilometri di distanza.

Entriamo in Norcia; ahi quale doloroso spettacolo: case intieramente atterrate, altre a metà diroccate, altre puntellate e pericolanti, mucchi di macerie in tutti i lati, presentano ancora i funesti effetti del terremoto che nella estate trascorsa avea desolata questa città, sovente soggetta a simili catastrofi. I cittadini, questa ultima Volta come nelle precedenti, erano tutti fuggiti nelle campagne, ma appena cessato il pericolo, l’amore del luogo natio li ricondusse  alle loro case diroccate, alla loro rovinata città. Eppure in questa desolata città ricevemmo una ospitale e cordiale accoglienza. lo ebbi il solito biglietto d’alloggio in locanda.

Norcia, l’antica Nursia, patria di Sertorio e di Vespasia Polla madre dell’imperatore Vespasiano, sta in mezzo ai monti che si diramano dalla catena della Sibilla, sull’altipiano di un colle che si eleva a 603 metri sul mare, in una fertilissima Valle. Per le abbondanti boscaglie ghiandifere alimentando numerose mandrie di animali suini, dei quali fa gran traffico, ne è derivato il nome di norcino a chi si occupa di apprestare le carni salate di maiale.

L’indomani, il 7, lasciammo Norcia alle 6 antim.: era il Giovedì grasso. Ci erano stati distribuiti i viveri a secco per quel giorno. Incominciammo subito a salire: per un breve tratto

percorremmo una cattiva e faticosa strada mulattiera lastricata a selci, che si converti poi in un semplice sentiero, ma presto perdemmo anche questo ed ogni traccia di strada, e ci inoltrammo nei monti. Eravamo accompagnati da guide, venute a malincuore e quasi per forza, perché dicevano che una bolla di un certo papa proibiva di valicare la Sibilla dal mese di Novembre a quello di Marzo sotto pena della scomunica. Coll’inoltrarci nei monti incominciavamo a vedere alcuni tratti di neve, che salendo diventavano più spessi, finché i monti ci apparvero tutti bianchi, perdemmo ogni traccia di terra e non vedemmo più che cielo e neve. Il cielo era coperto e l’aria freddissima, ma la fatica che si faceva nel salire e molto più per tirar fuori ad ogni passo i piedi che si affondavano nella neve, non ci faceva sentire il freddo. Arrivati alla vetta di un monte, ove ci pareva che dovesse aver termine la nostra ascensione ed incominciare la discesa nel versante opposto, ne compariva un altro più alto, e cosi di seguito. Il peggio si era che non si trovava un luogo per fare un alto e riposarci, a meno di volersi sdraiare sulla neve. Verso il mezzogiorno scoprimmo un altipiano verdeggiante di bella vegetazione e privo quasi affatto di neve, circondato all’intorno da piccoli monti dirupati a guisa di cratere, che gli danno l’aspetto del bacino di un lago, e tale forse era già un tempo remoto. Era il piano del Castelluccio, cosi detto da un piccolo villaggio che lo domina a nord, che si trova a 1470 metri sul livello del mare, di modo che da Norcia avevamo già salito quasi 870 metri. Qui facemmo un alto di circa un’ora: vi era un rozzo ed abbandonato abituro di pastori, mezzo diroccato, ma non vedemmo anima viva, perché noi marciavamo a sud, lungi dal villaggio.

Continuammo a salire in mezzo alla neve e Verso le due poi; giungemmo sotto la punta occidentale del Vettore: fu questo il punto più elevato della nostra marcia. Un enorme taglio a picco nel vivo sasso del monte, di colore rossastro, chiamato le Forche di Presta o sasso tagliato, offre un unico passaggio a non più di due persone di fronte. Qui non vedemmo più monti da salire, ma ci si offrì alla vista la Valle del Tronto, che ci apparve da quell’altezza come un piccolo fosso in un profondo e dirupato burrone, ove scorgemmo un piccolo gruppo di case. Domandammo alle guide cos’erano quelle case, e ci risposero: è Arquata ove dobbiamo andare. E quando poi da Arquata scorgemmo la enorme altezza da cui eravamo discesi non ci sorprese trovarci ancora sulla cima di un monte ben alto dal corso di quel fiume.

In questo versante australe non vi era più neve e si camminava invece sulle nude rocce. Discendemmo per più di due ore. Arquata era stata occupata dai briganti, che erano fuggiti all’arrivo di due Compagnie del 39° reggimento, facente parte della colonna comandata dal generale Pinelli; ma rimaste isolate e quasi tagliate fuori dalla loro base di operazione, che era Ascoli, non erano potute più uscire da Arquata. Noi dovevamo sostenerle e proteggere la loro ritirata in Acquasanta, ove si trovava un’altra compagnia nelle stesse condizioni, perché le bande brigantesche erano padrone di tutte le alture. Al nostro apparire sulla vetta della Sibilla, i briganti che ci scorsero dalle loro posizioni naturalmente fuggirono. Noi spingemmo una ricognizione nei dintorni del paese ed aspettammo che ne uscissero le due Compagnie del 39° per entrarvi. Vi entrammo a notte, Verso le 5. Io ero stanco, affamato, gelato dal freddo, coi piedi e le gambe bagnate fino al ginocchio: ufficiali e soldati furono alloggiati alla meglio presso gli abitanti e parte nella rocca. Io fui condotto in una casa ove potei mangiare, scaldarmi e dormire. Il freddo sofferto mi fece riprodurre il reumatismo intestinale, che però questa volta mi dette minor incomodo della prima.

 

 

L’incontro con la famiglia Girardi

Il colonnello era stato alloggiato nella casa del Sindaco e notaro, dottor Luigi Girardi, una delle prime famiglie del paese. Recatomi, secondo il solito, appena arrivato, a ricevere i suoi ordini pel rapporto della marcia ed arrivo, mi presento al padrone di casa, il quale al sentire il mio nome e la mia patria mi domandò se ero parente dell’Avvocato Filippo Carcani luogotenente (vicepresidente, ma effettivamente presidente, perché il titolare era nominalmente un monsignore, come in tutti i tribunali) del tribunale criminale. – Era mio zio, risposi, fratello di mio padre, ed ora è morto.

Il Dottor Girardi, che avea studiato in Roma, avea fatto pratica legale nello studio del mio zio, ed in Roma avea sposato la contessina Eleonora Amadei, romana, appena uscita di collegio, conducendola in questi monti. Egli mi presentò la sua famiglia composta della moglie Eleonora, di tre belle giovinette, Teresina, Ersilia e Clarice, e di due bambini, Adelina e Tommaso. Il figlio maggiore Giuseppe, dottore in chimica, si era arruolato volontario nel 39° reggimento fanteria. Un figlio, Enrico, era morto da pochi giorni in Roma, ove studiava legge; altri due figli, Rodolfo e Lamberto, si trovavano a studiare in Fermo.Questa fortunata combinazione mi fu in quel momento di sommo vantaggio e decise sull’avvenire della mia vita.

Quella sera io ti viddi, o mia Clarice, e tu mi amasti. Fu quello il primo amore che turbò la serenità dei tuoi vergini anni e che ti costò tante pene e tanti dolori, ma io tel dissi allora:

 

Perché tu m’ami? Al profugo

Che per la patria terra

Ove nefasto è il riedere,

Desia morire in guerra,

Deh non far sacro, o bella,

 

Il tuo primiero amor;

Compiangimi, o sorella,

Ma non donarmi il cuor.

Perché tu m’ami? É pallido

Della mia notte il faro,

Ignoto il mar che navigo

Ed il mio pane amaro.

Lascia, o fanciulla ingenua,

Questo infelice amor,

La mia fugace immagine

Cancella dal tuo cuor.

 

Cosi io ti dissi, ma la tua soave immagine, mia adorata Clarice, e rimasta indelebilmente scolpita nel mio cuore e mi ha sempre accompagnato nella mia avventurosa e travagliata esistenza.

Arquata sta sulla sinistra del Tronto a 740 metri sul livello del mare, lungo l’anticavia Salaria, che da Roma per Asculum portava al mare presso Truentum, Porto d’Ascoli. Nel prossimo villaggio di Trisungo, sulla destra del fiume, si vede ancora l’antica colonna miliare che segnava la stazione Ad Centesimum, cioè a cento miglia da Roma. La sua origine si pretende antica, ma non ne ho trovato menzione negli antichi scrittori. La sua rocca, che allora si conservava ancora in buono stato, tanto che vi fu acquartierata la musica del reggimento e la compagnia stato maggiore, oltre una mezza batteria di artiglieria da montagna, si crede edificata dalla regina Giovanna di Napoli, allorquando per breve tempo fece parte di quel regno.

 

 

Le operazioni militari nell’Ascolano e nel Teramano

La banda brigantesca capitanata dal famigerato Giovanni Piccioni, ex-sergente borbonico, e dai due suoi digli, Leopoldo e Gregorio avea commesso in questi luoghi eccessi orribili di barbarie sui militari caduti nelle loro mani. Al luogotenente dei bersaglieri Certani Carlo, dopo avergli cavato gli occhi, gli schiacciarono la testa fra due massi; alcuni bersaglieri, appesi pei piedi colla testa all’ingiù li fecero lentamente morire col fumo della paglia accesa sotto le loro teste; un capitano del 40° reggimento, rimasto ferito in una casa di campagna vicino ad Ascoli fu crivellato di pugnalate nel letto in cui giaceva; un circa 40 tra guardie nazionali e militari isolati, comandati da un ufficiale, circondati in una casa presso Acquasanta, erano stati tutti massacrati. Il generale Pinelli però avea agito con vigore ed energia: un intiero villaggio, il Paggese, frazione del comune di Acquasanta, nido e ricovero di briganti, era stato incendiato e distrutto. Questo esempio avea intimorito i briganti ed i loro partigiani, che aveano nei luoghi abitati. Una forte taglia avea imposto alla testa di Piccioni e dei suoi figli: quando noi entrammo in Arquata leggemmo gli avvisi di questa taglia affissa ancora sui muri.

Il dì seguente al nostro arrivo in Arquata, il l° battaglione partì per Amatrice, alle sorgenti del Tronto, ed il 2° per Accumoli sulla sinistra di questo fiume tra Arquata e Amatrice; il 3° battaglione col comando del reggimento rimase in Arquata. ll 37° col comando della brigata era rimasto a Norcia, da dove avea distaccato un battaglione a Montegallo alle sorgenti del Fluvione, affluente del Tronto, per tenersi in comunicazione con noi. Occupati così i passi dell’Appennino, le gole principali dei monti e tutta la Valle del Tronto, che divideva lo Stato pontificio dal regno di Napoli, dalle sorgenti alla foce, cioè da Amatrice ad Ascoli, i generali Pinelli e De Sonnez fecero una operazione combinata contro le bande che scorrazzavano nell’Ascolano e negli Abruzzi. Avevamo trovata in Arquata una mezza batteria di cannoni da montagna, coi quali si era armata la rocca, che domina il passaggio del Tronto e la Valle sottoposta. All’alba del giorno 11, ultimo Lunedì di carnevale, provvisti di viveri a secco, un berretto, senza zaini, e coperta a tracolla, uscimmo da Arquata, lasciando a guardia della rocca e della batteria tutti i musicanti armati coi fucili della guardia nazionale.       Occupammo tutte le alture dei monti circostanti e tutti i passi più importanti, tino alle rive del Tronto, congiungendoci da una parte e dall’altra cogli altri battaglioni, per togliere la ritirata alle bande, che venivano attaccate ed inseguite dalle altre truppe del generale Pinelli nella pianura ascolana e da quelle del generale De Sonnez nei limitrofi monti del teramano. Arrestammo molti fuggiaschi e sbandati, quelli presi colle armi alla mano che opposero resistenza furono uccisi sul luogo o fucilati. Bivaccammo tre giorni in quelle posizioni, al Sereno, senza tenda, colla sola coperta da campo e senza potere accendere fuochi. La notte dall’11 al 12 piovve sempre, una pioggia lenta, continua e fitta, che c’inzuppò fino alla pelle e che non ci permise neppure di coricarci sul terreno, molle, fangoso. Dovemmo rimanere tutta la notte in piedi, colla coperta sulle spalle a prenderci tutta l’acqua. Verso giorno cessò la pioggia: avemmo un’abbondante distribuzione di rhum, ed il calore interno asciugò gli abiti che avevamo indosso bagnati. Mi ero munito anch’io di un fucile della guardia nazionale; a Spoleto avevo fatto arrotare la mia Sciabola da furiere, ma non ebbi occasione di servirmi né dell’uno né dell’altra.

Io ero stato collocato, colla squadra dei falegnami e cogli altri graduati dello Stato maggiore, sulla strada che da Arquata conduce ad Ascoli (via Salaria) colla consegna di arrestare e di interrogare tutti quelli che provenivano da Ascoli, e far tradurre sotto scorta in Arquata quelli armati e che destassero sospetto, e d’impedire il passaggio Verso Ascoli a chiunque non fosse munito di lasciapassare del colonnello; ma, com’e naturale, armati per la strada non ne passarono. Dopo il mezzogiorno del 12 ebbi ordine di recarmi colla squadra dei falegnami a tagliare un ponte in legno sul Tronto, da cui si poteva minacciare il nostro fianco. Eseguita l’operazione, nel ritornare viddi una donna uscire da una casa di campagna con un piatto di frappe in una mano e un bottiglione di vino nell’altra; mi si accostò e mi disse: oggi è l’ultimo giorno di carnevale, poveretti, soffrite tanto per noi, prendete, e mi offrì da bere. Accettai di cuore perché avevo sete e fame, e ringraziai quella buona donna.

La notte dal 12 al 13 potemmo coricarci sul terreno, benché ancora bagnato. La sera del 13 tornammo in Arquata. L’operazione era finita, le bande erano state fugate e disperse, molti briganti uccisi, fatti prigionieri, o arrestati nelle loro caverne; ma tanto il padre che i figli

Piccioni coi più audaci erano fuggiti e ben presto, riuniti i dispersi e formata un’altra banda, ci procurarono nuove fatiche.

Intanto il generale Pinelli era stato collocato in disponibilità, si disse da alcuni per l’incendio del Paggese e per eccessi di rigore nella repressione del brigantaggio, da altri per un famoso ordine del giorno, che era Stato letto anche a noi, in cui si inveiva contro i preti e contro il Papa, al quale dava la denominazione di sacerdotale vampiro e ministro di Satana, forse per l’uno e per l’altro. Il giorno 13 il generale Mezzacapo, quello che era Stato già nostro generale di divisione nel 1859, assunse il comando del corpo di operazione, fissando il suo quartier generale in Ascoli.

Il colonnello Lauro avea pieni poteri non solo di far fucilare i briganti presi con le armi alla mano, ma di fare arrestare tutti quelli a carico dei quali vi fossero indizi di aver fatto parte delle bande, o di averle favoreggiate, e di inviarli quindi in Ascoli per essere giudicati dai tribunali competenti. Buono com’era, il colonnello Lauro e di cuore umano e generoso, rifuggì sempre dalle misure di rigore estremo e non ordinò alcuna fucilazione: però gli arresti eseguiti dalle colonne mobili, dalle pattuglie e dai comandanti i reparti di truppa da lui dipendenti erano molti, e come sempre accade in simili circostanze, tra molti rei ve ne erano anche alcuni innocenti, arrestati o per leggieri indizi o per falsi rapporti e denuncie a sfogo di vendette personali. In pochi giorni la carceri mandamentali ed altri locali adibiti provvisoriamente a tale uso erano pieni. Il colonnello mi incarico di esaminare i rapporti a carico dei detenuti e d’interrogarli prima di inviarli in Ascoli. Viddi che ve n’erano molti a carico dei quali non risultavano bastanti indizi di partecipazione o di favoreggiamento al brigantaggio. Fu scritto al generale Mezzacapo proponendo di rilasciare quelli a carico dei quali non vi erano sufficienti indizi di reità e di inviare gli altri alle carceri di Ascoli. Il generale acconsentì. Il giorno 14 marzo, anniversario della nascita del Re, e che solennizzammo colla maggior pompa possibile mi recai nelle carceri e, fatti separare quelli che doveano essere liberati, dissi due parole di circostanza, facendo loro intendere che per questa volta stante la ricorrenza del genetliaco di S. M. venivano messi in libertà, ma guai se vi fossero capitati un altra volta. Uscirono dal carcere gridando: Viva lo nostro Re Emanuello! e ripetendo tale grida per tutto il paese. Gli altri furono tradotti in Ascoli.

 

 

La caduta dl Gaeta, di Messina e di Civitella del Tronto

Il generale Cialdini aveva continuato il bombardamento contro Gaeta, e dopo tre mesi di assedio (dal 12 Novembre 1860) il 13 Febbrajo 1861 la piazza si arrese alle nostre truppe, che l’occuparono Questa notizia ci giunse in Arquata mentre io ero a pranzo col colonnello ed altri ufficiali in casa Girardi All’annunzio improvvisai alcuni versi, i quali dettero occasione al cappellano del reggimento, don Enrico Cavalli, piemontese, di dedicarmi dopo alcuni giorni una patriottica poesia che cominciava e finiva con questa strofa:

O generoso figlio di Roma,

Che a lei sospiri con tanto affetto

E ai tristi imprechi che alla sua chioma

Tolsero il serto dei prischi allor;

Figlio di Roma, spiana il moschetto,

Roma si leva sugli oppressor.

Dalle acque di Gaeta era quindi partito, sotto il comando dello stesso generale Cialdini, un corpo di spedizione contro la cittadella di Messina, e l’assedio intrapreso per terra e per mare il 26 Febbraro terminò colla resa della piazza il 12 Marzo. Non restava che Civitella del Tronto, nella quale rifugiatesi le bande brigantesche e gli sbandati da noi inseguiti, capitanati da un frate fanatico, si erano opposti alla guarnigione che, dopo la resa di Gaeta, voleva capitolare, e l’aveano costretta alla resistenza. Il generale Mezzacapo, il 18 Febbrajo ne cominciò l’investimento con regolari operazioni d’assedio. Lo stesso re Francesco II avea spedito da Roma un suo ufficiale superiore con uno dell’esercito francese, con ordine alla guarnigione di arrendersi, ma gli ammutinati non vollero obbedire, onde il generale Mezzacapo risolvette di prenderla d’assalto. Il nostro reggimento, che era in seconda linea e che fino a quel momento non avea preso parte alle operazioni d’assedio, ebbe ordine di partire la mattina del 19 dai rispettivi posti per prendere parte all’assalto.

Il comando del reggimento col 3 battaglione mosse da Arquata alle 8e mezza ed alle 11 giungemmo in Acquasanta, ove dovevamo attendere il 1° battaglione da Amatrice: il 2° da Accumoli si era recato a Mozzano sul Tronto, a dieci chilometri da Civitella, ma la sera del nostro arrivo ricevemmo la notizia che Civitella avea fatto proposta di resa, e difatti la mattina seguente vi entrarono le nostre truppe. Noi rimanemmo in Acquasanta, ove fu data alla truppa una distribuzione straordinaria di vino, e cosi perdemmo il frutto di tante fatiche. Il peggio poi si fu che non ci venne neppure valutata la campagna, sebbene il reggimento fosse sul piede di guerra e percepisse tutte le competenze di campagna; ma ciò deve attribuirsi alla poca premura che se ne prese il colonnello che comandava il reggimento quando, alcuni mesi dopo, il Ministero emanò 4 disposizioni per l’annotazione della campagna 1860-61, il quale non seppe far valere i nostri diritti.

Prima di partire da Arquata la forza del reggimento subì una sensibile diminuzione. Col mese di marzo scadeva la ferma di 18 mesi assunta dai Volontari il 1° Ottobre. Il Ministero autorizzò una nuova ferma di 18 mesi a chi la volesse assumere, ma furono pochi. Ad eccezione dei romani, gli altri che poteano tornare liberamente alle loro case, e che avevano così conseguito lo scopo del loro servizio, domandarono tutti il congedo, e fra questi un gran numero di sottufficiali scoraggiati dall’essere stati trascurati nelle promozioni ad ufficiale. (…)

 

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